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venerdì 21 aprile 2023

INCONTRO CON L'AUTORE : MARIZA D'ANNA SI RACCONTA A NOI STUDENTI

 



Nei scorsi giorni, presso l'aula magna del nostro istituto, si è svolto il tanto atteso incontro con la giornalista e scrittrice  Mariza d'Anna, autrice di  tre libri ,tra cui uno, "Il Ricordo che se ne ha", oggetto principale dei nostri interessi, in quanto letto durante le ore scolastiche con la docente di italiano. Il titolo, come ci ha spiegato l'autrice, è stato ispirato da una citazione di Charles Wright :

 " Niente è  bello come il ricordo che se ne ha..." 

Il libro racconta la storia, in parte romanzata, della sua famiglia approdata nella Libia italiana nei primi decenni del Novecento. Ai margini del deserto, a cento chilometri da Tripoli, nel 1928 il bisnonno ottiene in concessione dallo Stato un vastissimo fondo caratterizzato da pietra e lo trasforma in una grande attività agricola, Biar Miggi. Ma è il nonno Carlo la figura centrale del libro, descritto dai suoi venti anni attraverso un percorso che lo vede prendere le redini dell'azienda e portarla alla massima produttività, fino al 1 settembre 1969 quando, con un colpo di Stato, il colonnello Gheddafi caccia via dal Paese i ventimila italiani che vi risiedevano, trasformandoli in esuli in una patria che non è più loro, dove non potranno più tornare e riconoscersi. Nel libro viene evocato un ricordo personale, frutto di racconti vissuti e tramandati in famiglia, che è patrimonio comune di tanti italiani; la storia di una vita trascorsa in Libia dove la convivenza tra popoli di culture, religioni e costumi diversi non solo fu possibile, ma ricca di affetti e di solidarietà comuni, storia che abbiamo avuto il piacere  di ascoltare dalla voce della stessa autrice.

Un racconto commovente di una  donna, all'epoca una bambina di otto anni, impossibilitata a tornare nella sua patria tutt'oggi.

D'Anna però non ci ha intrattenuti esclusivamente con il racconto e le curiosità della sua singolare vicenda, ma anche di come tramite essa, coraggiosamente sia riuscita ad andare avanti, studiando al nord per diventare giornalista e tornando a Trapani, forse anche a causa di una grande nostalgia, per proseguire la carriera intrapresa,  motivo per cui, durante lo svolgimento dell'incontro, si è soffermata minuziosamente sulla differenza nella diffusione di informazioni di un tempo rispetto ad ora e sul riconoscimento delle tanto note "fake news".

Ma uno dei momenti più piacevoli è stato indubbiamente il contatto diretto con gli studenti curiosi presenti, da cui sono state porte delle domande a cui ha gentilmente ed esaustivamente risposto.

A sorprenderci è stato anche un annuncio di una sua futura pubblicazione di un libro totalmente disconnesso e differente da quelli prodotti in precedenza, infatti Mariza d'Anna ci narrerà della storia di un'amicizia tra delle ragazze di oggi, però  in dinamiche differenti che metteranno un po' di pepe alla storia.

L'autrice si è dimostrata disponibile  di poter tramandare in maniera così diretta la sua storia e le sue esperienze motivando i ragazzi a non farsi sconfiggere dagli ostacoli o dalle ingiustizie che potrebbero sorgere durante il lungo e sicuramente difficile percorso della vita, ma di combattere contro esse e di non averne paura, per raggiungere gli obiettivi auspicati. 

Infine, prima di salutarci e ritornare alla solita routine scolastica, abbiamo assistito alla visione di un video, rappresentante  alcune scene recitate durante l’omonimo spettacolo teatrale all'Ariston, ispirato proprio al ”Il ricordo che se ne ha”e al secondo romanzo "La casa di Shara Band Ong" cui noi stessi nel precedente anno scolastico abbiamo partecipato.

Noemi Asta e Cloe Guarnotta

Classe 4^A

Liceo delle Scienze Umane

giovedì 6 aprile 2023

UN INASPETTATO PREMIO PER " C'ERA UNA VOLTA..."

 


5/04/2023: Eccoci qui a Pescara quasi per caso e in modo inaspettato. Da soli  cinque giorni, infatti, abbiamo saputo che la nostra classe è  stata selezionata dalla “Fondazione Pescarabruzzo” per aver aderito  al premio di scrittura creativa da “Esopo e Gutenberg a Zuckerberg. Percorsi non convenzionali per scrittori fuori classe", III edizione 2021/2022 .

Quando la nostra professoressa di italiano, Lombardo Rossella, ci ha proposto quel compito sulle fiabe eravamo nel pieno del covid, che rimarrà sicuramente qualcosa di indelebile nella nostra memoria. È stato un brutto periodo che, però, ci ha fatto crescere e ci ha fatto capire quanto non siano scontate cose come la libertà di fare ciò che vogliamo o semplicemente quanto sia bello essere ragazzi. Nelle fiabe che sono state selezionate sono tante le tematiche affrontate quante le emozioni che abbiamo messo nel farle. Ci piace credere che in quelle poche righe in qualche modo siamo riusciti a dare voce a quei disagi nel miglior modo possibile. La nostra raccolta “C’era una volta”effettivamente non sono delle favole che esprimono apertamente una morale, ma sono delle fiabe da cui bisogna cogliere un insegnamento al fine di poter imparare, ma sopratutto crescere. E noi oggi ci sentiamo “cresciute”, più consapevoli, più donne.

Non ci aspettavamo di certo di essere chiamate dopo un anno dalla scadenza del concorso ! Ma la cosa importante è oggi esserci e sentire l’ emozione crescere in noi e che esploderà nel momento in cui saremo chiamate sul palco.

Insieme a noi sono state premiate anche le classi e gli studenti delle scuole vincitrici :dalla Primaria alla Scuola Secondaria di Secondo Grado per le due sezioni in gara:

Sezione A - Racconti per l’infanzia e l’adolescenza
Sezione B - Favole e filastrocche per l’infanzia
E ci inorgoglisce il fatto che , per la sezione B, le quattro scuole premiate sono siciliane.

E’ andata…e quando è giunto il nostro momento e l’emozione ci ha sopraffatto  siamo riuscite comunque  a rimanere lucide e a dare un senso ai suoni che uscivano dalla nostra bocca : ci siamo sentite GRANDI e veramente partecipi della vita che scorre negli infiniti “fiumi” dell’umanità.

Vanessa Bevilacqua,

Erika Acabbo

Sonia Vultaggio

Liceo della Scienze Umane, opzione economico-sociale, classe 4^I

sabato 1 aprile 2023

IO : UN CUBO DALLE VARIE FACCE, QUASI UN " REBUS"

 





Gentile professoressa,

È una dei suoi vecchi alunni che le scrive, una di quelli appartenenti alla fascia dei “bravi studenti”, sempre studiosi ed educati, dai quali non resta che prendere esempio.

Eppure, è bene che lei sappia che spesso persino i “bravi studenti”, così come i “cattivi”, nutrono dentro di sé una voglia immensa di cambiare, opporsi e scindersi definitivamente dal “buon personaggio” di turno, apprezzato solo perché concepito tramite le “lenti” modellate dallo sguardo sociale.

E chi, meglio di un professore, dovrebbe essere in grado di promuovere, oltre alla trasmissione delle conoscenze per un adeguato apprendimento, gli strumenti più adatti per stare bene con se stessi ed evitare che subentrino sentimenti di questo tipo?

Chi, se non il soggetto che funge da “modello” per i suoi studenti, con cui si relaziona quotidianamente, dovrebbe saper capire se qualcosa, nell’“alunna attiva, ma ragazza passiva”, smette di scorrere; se, piuttosto che con una normale e ambiziosa adolescente, gli sembra di parlare con uno specchio vuoto o un robot assente.

Un insegnante, dal latino insignare, è colui che incide, imprime dei segni; e di fatto, se sto impiegando il mio tempo per scriverle questa lettera, devo dire che lei è riuscita a pieno in tal senso. Tuttavia, si tratta di segni spezzettati, irregolari, tratteggiati, talmente superflui e impercettibili che ho impiegato del tempo per accorgermi della loro effettiva presenza.

Sono segni ormai provvisori, che con il tempo si affievoliscono, ma, soprattutto, che non sono affatto positivi, e che inevitabilmente faranno sempre parte di me.

In questo lungo periodo di passaggio da un insegnante all’altro, ho avuto modo di essere interpretata secondo varie prospettive: un cubo che non sarebbe più lo stesso senza le varie facce ad esso attribuite.

Le facce più o meno si richiamano con una certa frequenza: una ragazza capace e intelligente, sebbene un po’  “ambigua”, chiusa, la silenziosa di turno, difficile da conoscere realmente, un “rebus”.  Insomma: quasi un'alunna modello!  “Quasi”, appunto.

Infatti, nonostante tutto, si tratta di una ragazza che senza dubbio potrebbe fare ancora di meglio, che forse non si è preoccupata di dare il massimo, il quale, tra l’altro, sembra non essere mai abbastanza.

Ma adesso, cara professoressa, è arrivato il momento di svelarle il reale motivo di questa mia improvvisa comparsa.

Di recente mi sono imbattuta in un articolo molto interessante che ha rapidamente ricondotto il mio pensiero a lei. Si tratta di un articolo che sottrae fiducia al sistema scolastico medio, il quale, nonostante abbia senz'altro subìto un miglioramento nel corso dei secoli, non ha mai del tutto estirpato le proprie cattive radici.

Agli alunni, infatti, si sa, vengono insegnate aree specifiche della matematica, imparano a condurre esperimenti scientifici, ad apprezzare le arti, a conoscere molteplici lingue, guerre e rivoluzioni avvenute tanti secoli fa, stimolanti poesie e tanti autori la cui conoscenza è imprescindibile in ogni tempo.

Tuttavia, sebbene si tratti di saperi incredibilmente necessari, non c'è alcuna garanzia che essi siano sempre tutti rilevanti per ogni studente.

Infatti, si è di fronte ad una scuola che punta a raggiungere l’obiettivo finale senza curarsi, però, del percorso di ogni singolo alunno, diverso per ciascuno, così come diversi sono i loro tempi, interessi, opportunità, capacità, punti di forza e debolezze.

“Indottrinarli” in un falso senso di sicurezza secondo cui i loro meriti accademici siano tutto ciò su cui dovrebbero concentrarsi a scuola, è potenzialmente dannoso.

 

Malgrado ciò, professoressa, io non la biasimo del tutto: siamo in una scuola che altro non è che il riflesso di una società poco attenta, che spazia dal minimizzare all’ ingigantire un singolo problema, senza vie di mezzo; una società assurdamente competitiva dove se non corrispondi ad un canone ben preciso allora sarai bollato come "sbagliato"; una società senza freni, perennemente insoddisfatta, che richiede sempre di più (basti pensare al gusto capitalistico e consumistico della nostra epoca); una società in cui l'attenzione della gente è rivolta esclusivamente a tutto ciò che attira l'occhio, ciò che appare visibile, senza curarsi del fatto che spesso le cose che pesano di più sono proprio quelle che non si vedono.

Professoressa, si è mai chiesta cosa si intenda veramente con l’espressione “salute mentale”? Dubito che possa ammettere di averlo fatto, dunque sarò più diretta: si è mai curata di riflettere sul motivo per cui ci si vergogna a parlare di salute mentale?

Perché la gente spesso sminuisce e nasconde ciò che è evidente per paura di essere segretamente “matta” , e giudicata conseguentemente dagli altri come tale, senza sapere neppure cosa significhi?

Basti far riferimento alla categoria di gente che considera gli psicologi "strizzacervelli", o che spesso si rifiuta di comprendere e considerare i danni psicologici altrui perché tanto quel povero ragazzo o “sarà solo un po' stressato", o "sarà solo un po' di malumore", mentre magari in realtà starà covando dentro un male più profondo.

Il risultato di tutto ciò inevitabilmente si riscontra più o meno in tutti gli ambienti lavorativi e gradi scolastici, fino ad arrivare, ad esempio, alle tragedie universitarie di cui si sente parlare ormai all’ordine del giorno.

I giovani, infatti, pressati dai valori sociali basati sull’estremo perfezionismo e sulla tendenza a voler primeggiare sempre sia a scuola che al lavoro, non si sentono all’altezza degli standard loro richiesti e preferiscono spesso “rinchiudersi” o, nel peggiore dei casi, togliersi la vita, per evitare di affrontare una realtà quotidiana che avvertono come opprimente.

Tuttavia non è mia intenzione concludere questa lettera senza prima dare spazio ad un piccolo spiraglio di luce: la speranza.

Conservo la speranza in una scuola che possa prendere atto di quanto affermato e che mostri interesse a mobilitarsi in tal senso.

 È importante, infatti, che tutti  gli allievi, i futuri cittadini, vengano resi pienamente consapevoli delle priorità alle quali prestare attenzione, come la propria salute e, al contempo, della sofferenza ultima a cui spesso, e inevitabilmente, la vita ci sottopone ; in sostanza, essi devono essere pronti a coltivare la  resilienza nell'incertezza e la compostezza nel caos di un mondo così complesso.

È opportuno insegnare loro a lottare contro l'assenza di obiettivi, in quanto equivarrebbe ad attraversare la vita senza una direzione.

Ma, soprattutto, è fondamentale trasmettere loro la consapevolezza che non esiste vergogna quando si è liberi di esprimersi ed agire per quello che si è, e per quello che si può.

La vulnerabilità, i nostri rapporti con gli altri, le nostre difficoltà, i nostri sentimenti, le emozioni, il modo in cui gestiamo il nostro dolore e la volontà di offrire seconde possibilità: alla fine, parlare di salute mentale vuol dire parlare di tutto quello che ci rende umani.

Tuttavia, professoressa, sappiamo entrambe molto bene che per azionare il meccanismo del cambiamento non è sufficiente la fiducia e l’impegno di una sola persona.

 Pertanto, chiudendo un occhio sul passato e porgendole la mano, inizio col chiedere a lei: Sarebbe disposta a dare speranza ai suoi nuovi alunni, concedendo loro una seconda possibilità?


Letizia Catalano, 5^ O

Scienze Umane

CARA PROFESSORESSA




  

Cara professoressa,

Sono sicuro che si ricordi di me perché lei certamente ricorderà ogni singolo alunno a cui ha avuto il piacere di insegnare, come metterlo in dubbio! Lei certamente ricorda ogni faccia, ogni voce, ogni tema e ogni personalità, ogni discorso, ogni pianto e anche ogni rimprovero. Eppure non ne incontra nessuno per strada, nessuno l’ha mai salutata in giro, ringraziata, o scritto, su questi nuovi social, nuovi per lei intendo. Nessuno le ha mai dimostrato la sua gratitudine dopo quello stressante esame di terza media. Ma lei di certo non si fa troppe domande. Perché dovrebbe? Eppure fa sempre bene farsi due conti per capire cosa non va.

Sono comunque sicuro che, malgrado l'ingratitudine dei suoi vecchi studenti, lei si ricorderà di tutti loro, e in particolare di me. Eppure io le sue lezioni non le ricordo minimamente. Non ricordo un solo argomento spiegato da lei, e nemmeno un interrogazione a essere sincero. Al massimo ricordo di aver fatto qualche compito in classe della sua materia. A dir la verità, se dovessi basare il mio ricordo su quello che lei era in classe, e non su quello che era scritto nel mio diario scolastico, nemmeno saprei che materia insegnasse. E mi spiace, ma la mia dimenticanza non deriva da una qualche sua incredibile abilità di collegare e intrecciare tra di loro più discipline, certo che no, ma deriva dalla mia totale assenza durante le sue lezioni. Fisicamente ero presente, ma avevo la testa tra le nuvole. Può pensare dunque che la colpa della mia svista sia allora esclusivamente mia, certo, ma non è forse il compito di un insegnante quello di preoccuparsi che tutti gli studenti partecipino alla lezione? Oppure, come lei erroneamente sostiene, un professore dovrebbe limitarsi a conoscere solo la materia da lui insegnata? È paradossale pensare alla figura dell'insegnante, del pedagogo, senza coniugarlo alla pedagogia stessa. Forse lei, professoressa, nemmeno sa cosa sia la pedagogia. Eppure insegna, solo perché sa ciò di cui parla, anche se non sa come trasmetterlo. Io ricordo che lei rimproverava i più vivaci, quelli che giocavano sempre, e non stavano zitti; mio fratello ad esempio era una delle sue attrazioni preferite, ecco forse quelle urla lanciate sono l’unico ricordo che ho delle sue lezioni, poi per il resto nulla, potrebbe anche aver detto le peggiori parolacce o narrato le più avvincenti storie, e io non ne ho idea.

Ricordo come rimproverava i più fastidiosi e rumorosi, mentre noi diligenti e bravi passivelli eravamo apprezzati, anzi di più, venivamo elogiati per la nostra passività. Non pensi dunque che il problema sia solo lei, ma un po’ quel sistema, che avendo a che fare con bambini un po’ troppo cresciutelli, doveva preoccuparsi prima di mantenerli calmi e poi, possibilmente,  di fargli imparare qualcosa. Si, voi escludevate a prescindere la possibilità di coniugare attività ed educazione, azione e apprendimento, dialogo e lezione. Voi, e lei in particolare, pensavate che l’unico modo per apprendere era sentire, e davate per assodato che col silenzio si sentisse. Be’, io credo, anzi sono certo, che avrei paradossalmente sentito di più con uno stimolante baccano piuttosto che con quel morto silenzio. Non era nemmeno un silenzio placido, tranquillo e rilassante, ma era un silenzio forzato, rotto dalla sua disinteressata e minacciosa voce che recitava un monologo, rivolto probabilmente a se stessa, o al registro, ma sicuramente non a me. Certo che nessuno imparava niente:quello non era un ambiente di apprendimento, era un carcere in cui eravamo costretti a stare zitti e eventualmente ascoltare ciò che ci proponevate.

Ma basta parlare delle monotone lezioni, sterili e inefficaci, ormai infatti sta diventando una critica troppo comune alla scuola italiana. Preferirei difatti calarmi ancora di più nel personale, professoressa, ammettendo che lei si ricordi ancora di me, il “Cipollina tranquillo”. Infatti si ricorderà, professoressa, che noi Cipollina, oltre a essere due fratelli tanto diversi caratterialmente, eravamo accomunati da una disperata ed estremamente tragica malattia incurabile: la Dislessia. Sì, perché così lei e qualche altro suo collega la vedevate la mia lieve disgrafia, e la discalculia di mio fratello: come una tremenda condizione di infermità, di disabilità, che ovviamente ostacolava i miei tentativi di apprendimento. Proprio sulla base di questa vostra abissale ignoranza sui d.s.a -perché non era altro che questo: pura ignoranza- avete così compromesso drasticamente il processo di apprendimento mio e di mio fratello. Infatti vedevate in noi dei disabili non troppo disabili, che necessitano di un aiuto, certo, ma non poi di così tanta attenzione. Effettivamente era pure vero, ci serviva solo un piccolo aiuto, ma quello che lei ci ha fornito, poteva essere tutto, ma non di certo aiuto. Per la sua ignoranza infatti, ha accomunato tutti i disturbi specifici dell’apprendimento in una sola condizione unitaria di difficoltà. Proprio per tale ragione ci avete dato un sussidio imbarazzantemente inutile per la nostra condizione, ovvero libri ridicolmente semplificati e interrogazioni programmate, e ciò, invece di stimolarmi e incentivarmi a studiare, mi ha solo allontanato dallo studio stesso. Ricordo infatti con una certa nostalgia quei pomeriggi passati a non far niente, perché tanto ripetevo qualcosina, male, e visto che ero “malato” prendevo un immeritato 6. Avete preso le peggiori precauzioni per farmi studiare: libri più semplici, corsi di recupero, compiti in classe semplificati, ma niente, nulla sembrava aiutarmi. E pensare che bastava semplicemente dirmi di studiare! Pensandoci oggi mi sembra pure ovvio che lei non pensava minimamente che il problema derivasse da una mancanza di impegno, ma dalle mie difficoltà, infatti io e lei non avevamo mai avuto nessun dialogo, se non quei pietosi interrogatori. Mi sembra dunque normale che le uniche informazioni che avesse su di me fossero quelle presenti all’interno del mio fascicolo, che ovviamente non conteneva la mia mancanza di studio, ma solo il mio  disturbo specifico dell’apprendimento. In questo caso il problema non era solo mio, ma dell’intera classe, infatti lei non aveva un minimo dialogo con i propri alunni. Non voglio cadere nella banalità, ma per lei eravamo effettivamente solo numeri, solo voti. Se lo ricorda quando si è arrabbiata perché il povero Francesco non ha potuto studiare perché aveva perso un nonno? Ammirabile la sua insensibilità di fronte un ragazzino di 13 anni in lutto. Entrati in quell’ambiente sterile infatti, sia voi, che noi, perdevamo la nostra umanità, per diventare voti, e materie.

Lei sembra pertanto aver sbagliato tutto con me, e con quegli altri poveretti dei miei compagni di classe. Fin da sempre si è dimostrata inadeguata a trattare e interagire con una classe di ragazzini dagli 11 ai 14 anni, ad affrontare alunni con disabilità, disturbi o semplici dislessie, lei infatti è l’emblema dell’insegnante retrogrado, incapace di trattare le nuove esigenze della scuola e privo di conoscenze pedagogiche. Potrà essere dunque la più preparata nella sua disciplina, ma ciò non fa di lei una buona insegnante, se non è in grado di trasmettere in maniera efficace ciò che sa.

La sua inadeguatezza però non era solo nella fase della trasmissione delle conoscenze del processo di apprendimento, ma anche nella correzione dell’errore. Infatti lei, non considerava l’errore come mezzo di apprendimento,  ma come un fallimento, semplicemente da non ripetere. Credo infatti che se qualcuno avesse osato correggere i miei errori, farmi capire cosa sbagliavo, come rimediare, e come comportarmi, forse avrei appreso qualcosa. Invece no, tutti così presi dalla mia tragica infermità che nemmeno osavate correggermi gli errori, favorendo così il loro ripetersi. E pensare che, se qualcuno di voi avesse compreso che i miei bassi risultati non dipendevano dalla mia disgrafia, ma solo dalla mia negligenza, io avrei ottenuto prestazioni decisamente migliori. Fortunatamente professoressa, uscendo da quella comodissima scuola (per me), ho capito che i miei risultati dipendevano effettivamente da me, perché Io sono membro attivo della mia istruzione, e non passivo.  

Antonino Cipollina, 5^ O
Scienze Umane