27 gennaio 1945, giorno in cui il mondo conobbe Auschwitz, i pochi sopravvissuti e ciò che si nascondeva di terribile all’interno delle recinzioni di filo spinato. Ma torniamo indietro di qualche anno e ricordiamo brevemente l’inizio che portò alla fine di migliaia di ebrei o come viene conosciuto oggi, al genocidio nazifascista.
La guerra ebbe inizio l’1 settembre del
1939, quando Hitler con il suo esercito invase la Polonia, questo attacco
doveva essere una Guerra Lampo, ma il 3 settembre dello stesso anno, Francia e
Gran Bretagna dichiararono guerra alla Germania, preoccupate per l’intenzione
di Hitler di avanzare verso l’Europa. È in questo modo che inizia il conflitto
armato che procederà con un susseguirsi di eventi terribili che hanno fatto la
storia e di cui ancora oggi non ci si capacita.
La guerra finì nel peggior modo possibile per l’intero mondo che, dal un lato
scoprì le atrocità dell’Olocausto e lo sterminio di milioni di esseri umani e
dall’altro dovette assistere alla brutalità di una nuova arma di distruzione di
massa, la bomba atomica sganciata su Hiroshima e Nagasaki. l’UDI (Unione
donne in Italia) e il “Treno della memoria” hanno organizzato per lunedì 17
gennaio un incontro a distanza con le sorelle Bucci, al quale la nostra scuola ha partecipato con una rappresentanza di alunni
delle quinte classi. Come ho detto prima, di sopravvissuti ce ne furono pochi,
solo 50 bambini ne uscirono vivi tra cui le sorelle Bucci.
“Quella sera del 28 marzo del 1944 non la dimenticheremo mai. Eravamo già a
letto, erano da poco passate le nove. Mamma Mira venne in camera, ci svegliò e
ci vestì in fretta. Quando entrammo in soggiorno, c’erano molte persone, una di
loro con un cappotto di pelle lungo. Nonna Rosa, inginocchiata davanti a questo
uomo, lo implorava di lasciare a casa almeno noi bambini. L’ultimo ricordo è la
luce della nostra abitazione. Poi siamo uscite al buio e ci hanno caricati su
un blindato”, racconta Tatiana.
Tatiana Bucci aveva sei anni e sua sorella Andra quattro, quando i fascisti e i
nazisti le catturarono nella casa di Fiume (allora città italiana), con loro
anche il cuginetto Sergio de Simone, per portarli nel campo di sterminio di
Auschwitz - Birkenau in Polonia. Figlie di un papà cattolico e di madre ebrea.
Un delatore segnò la condanna di Sergio, della sua mamma, della sua
nonna, delle sue cuginette Andra e Tatiana e della loro mamma Mira: furono
tutti deportati il 29 marzo 1944. Con la prima selezione, nonna Rosa fu mandata
a destra, caricata su un camion e spedita al gas. Mamma Mira con le bimbe Andra
e Tatiana raggiunsero Birkenau a piedi insieme a Gisella e Sergio. Furono tutti
tatuati. Sergio e le cugine la stessa notte furono separati dalle loro mamme e
spediti nella baracca dei bambini. Da quell’inferno Gisella tornò, tornò anche
la sorella Mira e le bimbe Andra e Tatiana che furono scambiate per gemelle.
Sergio no, lui non tornò. Fu sopraffatto dall’inganno dello scienziato Mengele
una fredda mattina di novembre del 1944, quando entrò nella baracca dei bambini
di Birkenau e disse: “Chi vuole vedere la mamma faccia un passo avanti”. Sergio
de Simone fece un passo in avanti insieme ad altri diciannove bambini. Furono
trasferiti al campo di concentramento di Neuengamme, vicino ad Amburgo, usati
come cavie di laboratorio e a loro fu iniettato il virus della tubercolosi che
li porterà alla morte.
Solo dopo tanti anni, le due bimbe ormai
cresciute, furono accompagnate a Roma e
nel dicembre del 1946, ritrovarono i loro genitori. Oggi hanno i capelli
bianchi e il volto solcato dalle rughe. Tatiana vive in Belgio con il marito;
Andra in California, con le figlie. Per anni, però, in occasione della Giornata
della Memoria sono sempre tornate ad Auschwitz, nella baracca dove hanno
vissuto dal 4 aprile 1944 al 27 gennaio 1945, la fine di tutto. Ricordano come
se fosse ieri il vagone del treno che le portò verso la Polonia. In quegli anni
difficili, la gente si suddivideva in “delatori” o, come vengono riconosciuti
da un paio di anni, “I Giusti tra le Nazioni”: sono gli eroi, per lungo tempo
anonimi, che negli anni delle leggi razziali e delle deportazioni di massa nei
campi, non esitarono a mettere a rischio la loro vita e quella delle loro
famiglie, pur di salvare uno o più ebrei. Uno di essi fu Gino Bartali, un
ciclista che, con la scusa di dover viaggiare parecchio per i suoi allenamenti
e gare, nascondeva all'interno del sellino o del telaio della sua bici, dei
documenti falsi destinati agli ebrei con la speranza che riuscissero a
salvarsi. Bartali non lo raccontò mai a nessuno se non alla sua famiglia,
furono i suoi figli a farlo e a chiedere la nomina per il padre.
Gli anni passano e il tempo scorre, pian piano i pochi testimoni ci lasciano e
una delle paure che ci tormenta è se tutto questo verrà dimenticato, se tutto
si ripeterà portandoci alla fine. Dobbiamo continuare a parlarne, a
raccontare di uno dei periodi più oscuri del passato, a tramandare tali
fonti ai nostri figli, nipoti, perché tutto questo non deve essere dimenticato,
non possiamo permettercelo, lo dobbiamo alle vittime.
Questo può avvenire grazie anche all’idea di un artista che si diffuse in tutto
il mondo. La sua iniziativa fu quella di mettere delle pietre d’inciampo,
ovvero delle piastrine di ottone, sulle quali sono incise le informazioni
degli ebrei deportati, davanti alle porte delle loro abitazioni, in modo tale
che chiunque cammini lungo le strade, veda e ricordi.
Erika Culcasi, 3^ M
Liceo delle Scienze Umane opzione economico-sociale
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